Americo Mazzotta: la malattia come speranza e l'arte come ricerca
La prima volta che ho sentito parlare di Americo Mazzotta è stata l’anno scorso. Il suo nome mi fu fatto da un comune amico dopo essere stato al cimitero monumentale della Misericordia dell’Antella, nel territorio di Bagno a Ripoli, dove era stato inaugurato un memoriale in suo ricordo.
La storia di questo artista, originario di Collecchio, mi è tornata in mente leggendo la notizia che in quello che è stato il suo comune di adozione, Figline Valdarno, è stata aperta una mostra che raccoglie una selezione di disegni realizzati da Americo durante gli ultimi mesi della sua vita, quando era già gravemente malato.
Ho deciso così di entrare nelle pieghe di quest’uomo scomparso due anni e mezzo fa ma la cui memoria è ancora molto forte nel mondo culturale, così come tra i suoi concittadini e i suoi tantissimi amici. Per farmi aiutare in questo viaggio alla scoperta dell’artista Mazzotta ho contattato la figlia Elisa che è inevitabilmente la custode principale della sua opera e del suo messaggio.
Per comprendere la vastità del personaggio di cui vi parlo in questa newsletter è necessario partire dalla fine. Nel 2020 Americo era stato ricoverato nell'Hospice di San Felice a Ema per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Era però già da due anni che non lavorava più a causa della malattia che gli aveva provocato anche una brutta depressione una volta che aveva compreso che la sua vita sarebbe terminata in breve tempo.
Ed invece grazie agli amici e alla figlia che lo andavano a trovare ogni giorno e gli riempivano la stanza, Americo decise di ricominciare a disegnare fino al punto di esternare l’idea di una mostra che potesse raccogliere quanto aveva realizzato durante il ricovero. Un’idea raccolta da Elisa che, grazie anche ad altre persone, ha fatto in modo che il suo ultimo desiderio potesse finalmente diventare realtà. “Ho voluto, grazie agli amici di mio padre, far conoscere quest'uomo, non solo come pittore, un uomo che ha vissuto la sua malattia e la sofferenza prima con la negazione e la paura di essa, poi con la riconciliazione e la speranza, prima di essere preso”.
Come sia stato possibile questo cambiamento in suo padre per Elisa è un mistero. “Si era riappacificato con sé stesso, con la malattia e con il Destino mentre prima era una continua lotta. Sicuramente ci sono stati gli amici che lo hanno aiutato molto. Gli portavano libri, fogli, pennarelli, matite e lui pian piano ha ricominciato a ispirarsi”.
In quegli ultimi mesi della sua vita, Americo realizzò ben 177 disegni. Una selezione di 34 di quei lavori è esposta nella mostra monografica “Lo splendore della luce e dei colori: sguardo e memoria”, organizzata dal Centro culturale di Arezzo e da Comune di Figline e Incisa Valdarno e curata dal poeta Davide Rondoni. L’esposizione è ospitata al Palazzo Pretorio di Figline fino al 1° maggio, visitabile gratuitamente ogni martedì, ad ingresso libero, dalle 9.30 alle 19, il sabato, la domenica e i festivi su prenotazione.
Scandagliando nella vita di Americo, è interessante anche il suo rapporto con la Toscana. Lui era nato in provincia di Parma nel 1941, ma si era trasferito ben presto a Firenze per studiare Architettura. Un rapporto che è rimasto sempre vivo visto che nel 1991, ormai al culmine della sua maturità da pittore e scultore, decise di trasferirsi definitivamente e stabilmente qui.
Racconta la figlia Elisa: “Firenze è nata come studio e poi dopo si è fatto una famiglia e un lavoro. E’ stata una scelta naturale anche se lui andava dove c’era lavoro. Si affezionava alle persone come un padre. Dovunque è stato. Dava lavoro a tutti coloro che avevano bisogno e quindi aveva molto credito presso gli altri artigiani. Era così che si formava un rapporto di stima oltre che professionale. Nel Valdarno ci sono molti artisti e tanti andavano da lui a chiedergli una nozione, una dritta e quindi nasceva un’amicizia”.
La sua fama, infatti, lo precedeva visto che fin da giovanissimo Americo si dedicò quasi esclusivamente alla pittura. La sua prima mostra, alla “Piccola galleria” del Palazzo comunale di Pesaro, è del 1962. Negli anni seguenti le sue opere furono al centro di numerose esposizioni e personali in tutta Italia.
Ma è nell’arte sacra che espresse i suoi lavori di maggiore impatto. Nell’ ’81 dipinse l’“Odissea”, una grande opera in 14 disegni a sanguigna che, seguendo le tracce di Ulisse, descrive la metafora della sua vita. Nel 1982, invece, dipinse in 120 giorni “La battaglia di Lepanto”, pittura murale in monocromo a sanguigna realizzato nella chiesa della Madonna del Rosario di Redecesio, nei pressi di Milano, su una superficie di 147 metri quadri. Dall’ ’89, per circa 20 anni, progettò e realizzò vetrate (veri e propri quadri su vetro) per oltre 35 chiese palermitane, insieme all’architetto vetratista Calogero Zuppardo, con tecniche all’avanguardia.
La sua opera più celebre è, però, la decorazione monumentale della Chiesa di San Giuseppe Lavoratore, nei pressi del campo di sterminio nazista di Auschwitz. Qui Mazzotta realizzò, tra il 1994 e il 1997, la sua opera più imponente: una pittura murale in sanguigna nell’abside della chiesa, estesa 200 metri quadri, oltre a quattro episodi della storia della Polonia, alle vetrate absidali dedicate a “San Giuseppe e l’Europa” e al “Golgota”, e alle 14 vetrate della “Via Crucis”, un ciclo nel quale Mazzotta unisce la Passione di Cristo a quella del popolo dei deportati.
Continuò a lavorare su commissione e ad esporre fino al 2014, realizzando cicli pittorici affrescati, vetrate, sculture e bassorilievi per edifici pubblici e chiese in tutto il mondo.
Non è un caso che il lavoro di Americo fosse dedicato quasi totalmente all’arte sacra. Il rapporto tra lui e la religiosità era infatti strettissimo, come conferma anche Elisa: “Mio padre era totalmente dedicato alla fede. Ha dedicato la sua arte a questo. Negli ultimi tempi ha fatto soltanto lavori che riguardavano chiese a cui dava sempre precedenza rispetto ad altre richieste. E poi era dedicato a cercare il significato della propria vita seguendo il Signore attraverso le persone che incontrava, attraverso il movimento che gli era stato dato, in definitiva grazie all’incontro con don Giussani. La sua arte era dunque una continua ricerca sul proprio destino”.
Quello della fede è un filone presente anche nella mostra attualmente in corso a Figline. I disegni di Americo sono stati divisi in tre sezioni. La prima è intitolata “La finestra” e riguarda tutte le opere di quando dalla stanza dell’hospice vedeva la natura e, con la fantasia, tornava nel passato e in altri luoghi. La seconda, invece, è “L’umano” perché è una sala dedicata alle persone e ai tanti ritratti che lui realizzava. L’ultima invece è “Pro memoria”, ossia il sacro, con le rappresentazioni dei personaggi religiosi che ricordano i lavori realizzati nelle chiese.
Un percorso che ci tiene a sottolineare Elisa riconduce alla eredità del padre. D’altronde, la memoria di Americo è vivissima. “Anche chi lo ha conosciuto per poco si ricorda di quello che ha fatto. In paese c’è stata una grande attesa per la mostra. Tutti si sentono coinvolti”. Ma non c’era bisogno di questo appuntamento per capirlo. Come dicevamo all’inizio, soltanto lo scorso anno all’Antella gli amici hanno voluto dedicargli ed intitolargli un monumento nel cimitero dove egli stesso, a più riprese, dal 2001 al 2011 si era impegnato a dipinge le pareti di fondo delle cappelle nella nuova ala.
Una decorazione che faceva parte del ciclo dedicato ai Misteri del Rosario, che prevedeva 60 opere (3 scene diverse per ogni mistero), rimasta incompiuta a causa della morte dell’artista che riuscì a realizzarne soltanto dodici.
Un cammino apparentemente interrotto ma che grazie al suo lascito continua attraverso gli amici e sua figlia a cui chiediamo qual era il suo rapporto personale con una figura così prestigiosa ed ingombrante. “Era un padre presente e molto singolare. Lui parlava di arte sempre. Si indentificava con il suo lavoro. Era impossibile parlare di altro con lui. Riconduceva tutto alla sua passione. Tutti volevano un padre come il mio mentre io avrei voluto un padre diverso, uno che facesse un lavoro normale. Poi ho cominciato ad amarlo e non è stato poi così difficile farlo”, ha concluso Elisa.