Terra Santa, può esserci pace solo tra persone che si conoscono
C'è una grande voglia di capire qualcosa di più della guerra in atto tra Israele e Palestina ma anche di non schierarsi pregiudizialmente da una parte o dall'altra. Una terza via è possibile anche se viene spesso censurata nei talk show televisivi dove purtroppo prevale la logica del conflitto e del nemico a tutti i costi.
Per uscire fuori dalla bolla mediatica in cui tutti siamo immersi, è stato molto utile l'incontro promosso qualche giorno fa dal Centro Culturale di Firenze dal titolo “La guerra che non si può vincere” con un riferimento esplicito al libro di David Groosman e con l'obiettivo di approfondire le ragioni di un conflitto che sta colpendo la Terra Santa ma anche per esplicitare la possibile via della pace.
Ospite della Libreria Campus, nella zona universitaria di Novoli, Andrea Avveduto, giornalista e responsabile della comunicazione dell'associazione “Pro Terra Sancta” che promuove e realizza in quell'area progetti di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, di sostegno alle comunità locali e di aiuto nelle emergenze umanitarie.
Un testimone in presa diretta quindi; recentemente rientrato in Italia dopo uno dei suoi tanti viaggi in Medio Oriente, capace di fare un quadro aggiornato della situazione attuale ma anche di proporre una visione diversa dove non conta mettere sulla bilancia i torti delle due parti in questione.
Il punto di partenza non poteva che essere la conclusione della guerra. Perciò Antonio Magliulo, ordinario di storia del pensiero economico all'Università di Firenze, ha ricordato in apertura l'appello “Artigiani di pace” che i vescovi italiani hanno lanciato recentemente da Assisi. “Vogliamo cercare di capire quale può essere il nostro contributo alla pace perché la tentazione è quella di prendere parte o di essere equidistanti. Avveduto ci ha colpito per la sua posizione originale”.
L'incontro, sotto forma di dialogo con il numeroso e partecipe pubblico, è stato suddiviso in quattro momenti, intesi come tappe di un percorso finalizzato ad una maggiore consapevolezza della posta in gioco. Il primo focus è stato dedicato ad una breve storia del conflitto senza il quale è davvero difficile districarsi nell'attualità. Si è passati alle soluzioni per il dopo 7 ottobre, data del violento e ingiustificato attacco terroristico di Hamas, per poi tracciare la prospettiva di pace più concreta e realistica. Infine, spazio a ciò che ciascuno di noi può fare sia in termini di presa di coscienza, sia come impegno nel proprio quotidiano.
Introducendo il tema, Avveduto ha fatto notare che la logica maggioritaria è quella di schierarsi immediatamente con gli israeliani o con i palestinesi, come testimoniano anche le tante manifestazioni che si sono svolte in Italia e all'estero nelle scorse settimane. Una posizione che lui però non sposa: “La realtà è più complessa di quella che ci viene raccontata: voler bene agli uni non può prescindere dal voler bene anche agli altri”.
La storia del conflitto
Riavvolgendo il nastro della storia, Avveduto ha sottolineato che il conflitto è iniziato ben prima della costituzione dello Stato di Israele, datato il 15 maggio 1948. C'è prima la nascita del movimento sionista all'inizio del XX secolo a cui poi segue l'accordo che nel 1916 ridisegna i confini del Medio Oriente con conseguenze molto pesanti sul mondo arabo nel senso che l'area tornerà sotto l'influenza francese e inglese in un'ottica colonialista che sembrava ormai alle spalle.
L'anno successivo gli ebrei iniziano a tornare in Palestina e subito dopo si registrano i primi scontri che andranno avanti per circa trent'anni, anche perché questi piccoli gruppi sionisti vengono finanziati in chiave anti – ottomana. Nel 1941 un'altra ferita importante viene inferta dalla Turchia che blocca una nave di ebrei che successivamente affonda. E' in questo preciso momento che nasce la necessità di avere uno Stato a cui delegare la sicurezza del popolo ebraico.
Dopo la nascita di Israele, è a causa dell'attentato terroristico del 1946 che l'Onu accende i riflettori sul quadrante mediorientale e crea l'osservatorio speciale che però viene boicottato dalla parte araba. Nonostante ciò, si procede con il piano di spartizione del territori con l'avallo degli Stati Uniti.
“La storia della formazione dello Stato di Israele è costellato da ferite enormi. Il '48 è all'origine di quanto avviene oggi. Gli ebrei tornano verso la terra di Israele dopo l'Olocausto e le persecuzioni. E' quasi come il compimento di una profezia. Per il mondo arabo invece è la catastrofe. Le loro case vengono confiscate. Fuggono, diventano profughi. La fratellanza araba attacca e il conflitto è ancora in corso”, ha detto Avveduto.
Il dopo 7 ottobre
La storia ci racconta di 75 anni di scontri più o meno significativi. Ecco perché la situazione è estremamente complessa. L'attentato del 7 ottobre arriva in un momento molto delicato per Israele che si trovava sull'orlo di una guerra civile. Nelle settimane precedenti, infatti, migliaia di persone avevano protestato contro il governo di Benjamin Netanyahu, accusato di voler togliere potere alla magistratura. Un piano di riforme che ha diviso la società, provocando anche l'indebolimento dell'intelligence. La politica degli ultimi venti anni è stata miope perché ha puntato il dito contro Hamas e ha frammentato una società che poi è andata in piazza a manifestare. Avveduto l'ha chiamata la “politica del disprezzo” che è alla base della polarizzazione tra israeliani e palestinesi.
Ci sono stati poi tanti episodi che hanno alimentato una frustrazione all'interno del popolo palestinese, radicalizzando anche Hamas che, è bene ricordarlo, non nasce come movimento terroristico. Lo diventa ai tempi della prima Intifada. Oggi Gaza è una prigione a cielo aperto, uno dei luoghi più popolati al mondo dove è cresciuta una generazione frustrata e incattivita.
“Distruggere Hamas, dunque, non risolve i problemi perché entrambe le società vivono ferite al proprio interno. La questione palestinese è ineludibile. Il malcontento è venuto fuori in maniera estrema e la politica, così come la comunità internazionale, è fortemente in ritardo”.
La risoluzione del conflitto
A questo punto la lettura della realtà è molto più comprensibile. Bisogna ora azzardare un giudizio di sintesi ponendo la domanda relativa alle cause che non hanno portato alla risoluzione di questo conflitto permanente. Ci sono diverse questioni in ballo ma, secondo Avveduto, la causa principale risiede nella mancanza di un incontro tra le parti. E' vero che nel 1993 così come nel 2000 ci sono stati dei tentativi di pace ma non è bastato. Richiamando il libro Groosman, il rappresentante della Pro Terra Sancta ha ribadito che “può esserci pace solo tra persone che si conoscono. Non è una via idealistica, utopistica ma concreta. Abbiamo costruito una prigione per il nemico e abbiamo visto il mondo solo da questa prospettiva. Abbiamo fondato un mondo sull'insicurezza e sulla paura. Se non impareremo ad avere fiducia non basteranno sofisticati sistemi di intelligence. Israeliani e palestinesi sono condannati a vivere insieme, perciò devono creare una rete di relazioni.
Cosa possiamo fare noi
La logica dell'incontro non vale solo per la Palestina e Israele ma per ciascuno di noi. “La pace si fa costruendo esperienze di pace nelle scuole, nella società, nelle associazioni. La politica cavalca l'odio ma la costruzione dell'incontro e di un futuro rende le persone più libere di non farsi ricattare da questa politica. Puoi distruggere Hamas ma se non hai una strategia per la Palestina non risolverai il problema. Perciò è assurdo schierarsi. Creare un futuro alla Palestina significa rendere più sereno Israele. Senza l'incontro torneremo a mettere sulla bilancia i morti degli uni e degli altri. Sono troppe le ferite e i torti. Perciò bisogna ragionare in ottica di ragioni altrimenti il rischio è pesare i morti. Più che equidistanza ci vuole equivicinanza”.