Cicely Saunders ha aggiunto vita ai giorni e non giorni alla vita
Dobbiamo essere tutti grati ad Emmanuel Exitu per aver proposto al grande pubblico la figura di Cicely Saunders, pioniera degli hospice e delle cure palliative moderne.
Attraverso il suo ultimo romanzo, pubblicato da Bompiani, l'autore narra con semplicità la storia di un medico che si è preso cura degli incurabili, regalandoci un nuovo sguardo rispetto al dibattito in corso in Italia e non solo sul fine vita e sul “diritto” a morire.
Il libro di Exitu, che oltre ad essere scrittore è anche drammaturgo e autore televisivo, è stato al centro dell'incontro organizzato venerdì scorso dal Centro Culturale di Firenze in collaborazione con l'associazione Medicina e Persona e con il contributo della Libreria Campus.
“Di cosa è fatta la speranza. Da Cicely Saunders al cammino delle cure palliative”. Questo il tema del confronto a più voci che si è tenuto nell'aula magna dell'Ospedale di Careggi ed ha visto come protagonisti Maddalena Isoldi, medico di base e rappresentante di Medicina e Persona; Marco Maltoni, direttore dell'Unità Cure Palliative della Romagna; padre Guidalberto Bormolini, presidente dell'associazione TuttoèVita e Silvia Leoni della Fondazione Ant.
La serata è stata inaugurata dai saluti del dottor Gianluca Villa, direttore della Scuola di specializzazione in Medicina e cure palliative dell'Università di Firenze, che ha detto di aver trovato estremamente interessante la lettura del romanzo perché nella narrazione si ritrova l'importanza di mantenere il contatto con il dolore dell'altro.
Il profilo di Cicely Saunders è stato tracciato dal palliativista Maltoni. “Questa donna ha cambiato la storia della medicina e dell'assistenza. La sua grandezza sta nel fatto che ha inserito la sua esperienza innovativa in una tradizione. In Inghilterra c'erano già gli ospizi e dei luoghi di accoglienza ma l'ispirazione iniziale si era persa col passare degli anni”.
“La sua prima grande sfida fu osservare ciò che aveva davanti e poi introdurre dei cambiamenti. Per lei l'hospice era un luogo di cura, di vita. Questa concezione divenne un'esperienza e ciò implicò anche un aspetto di ricerca”, ha proseguito il medico romagnolo.
Per Cicely la cura deve essere integrale. “La malattia ha una dimensione fisica, psicologica, sociale e spirituale. Il dolore totale implica quindi un approccio globale. Oltre alla ricerca e alle relazioni, però, c'è anche l'aspetto della formazione. I suoi hospice erano visitati da giovani studenti”.
Ecco il concetto di innovazione nella tradizione: “Nessuno sceglie il dolore ma quando si è dentro questa esperienza può accadere di possederla, di rimanere annichilito oppure di compiere un cammino cioè desiderare di essere felice anche se c'è qualcosa che nega questa possibilità, almeno apparentemente”.
Riferendosi al titolo del romanzo di Exitu, Maltoni ha sottolineato che “la speranza è fatta di limiti ma per affrontarli c'è bisogno di un luogo e di facce. Quell'istante della malattia è importante perché c'è qualcosa che rimanda al per sempre. Perciò la cura fino al dettaglio. Lei diceva sempre: Noi vogliamo dare vita ai giorni e non giorni alla vita”.
Ma oggi cosa rimane di questa eredità? “Guardando lei rimane innanzitutto la bellezza del nostro lavoro. Però occorre sistematizzare la rete delle cure palliative sul piano nazionale, contaminare il resto della medicina, personalizzare l'intervento e scommettere sul lavoro di équipe. Dove le cure palliative sono sviluppate diminuiscono anche le richieste eutanasiche”, ha concluso Maltoni.
Bormolini, sacerdote, monaco e fondatore di un hospice a Prato, ha parlato del tema del limite che è così evidente nell'esperienza della malattia. “L'umano si manifesta soprattutto intorno a morte e sofferenza. L'esistenza umana è aperta all'infinito ma proprio quando prendiamo coscienza che abbiamo un limite diventiamo umani. Se ci fate caso i grandi esclusi della nostra civiltà sono proprio la vecchiaia, la malattia e la morte. E invece la finitudine è un dono nel senso che ci fa cogliere che noi siamo di più dimensioni. Andiamo in cerca delle altre”.
Alla base delle cure palliative c'è un concetto secondo padre Guidalberto: “Curiamo un essere che è corpo, psiche e spirito. Tutte queste dimensioni sono in relazione. Cicely insegna che bisogna rinnovare la cura: non si può vivere senza guardare in alto, abbiamo necessità di una stella polare, di una dimensione invisibile. Le cure palliative sono l'unico percorso che offrono un invisibile sempre più accettato anche dalla scienza”.
“La malattia ci pone in una situazione assolutamente inedita ma nuova alla storia. Un malato è un grande asceta, vive da monaco senza averlo scelto, fa un'esperienza che è quella dei mistici perché avviene in lui la riunificazione interiore. E questo è un messaggio per tutti: non fermarti alla superficialità della vita. Ciò che finisce apre a grande bellezza”.
Un testimonianza significativa su ciò che significa stare accanto al dolore e a chi soffre è venuta dalla dottoressa Leoni che lavora nella sezione fiorentina dell'Ant, la fondazione che il prossimo anno compirà il 25esimo anniversario di attività.
“Cicely ha risposto alla sofferenza che vedeva. Ha dimostrato che curare è più vantaggioso anche dal punto di vista umano. L'esigenza più profonda è vivere, non è la malattia che mi definisce. Noi oggi dobbiamo combattere la cultura della morte. Perciò è necessario fornire un'assistenza caritatevole ma competente e poi contare su una squadra in cui si condivide una professionalità e una posizione umana”.
L'accompagnamento dei malati e dei loro familiari ha una dimensione affettiva. “Ci vogliono un ascolto vero, uno sguardo, il fidarsi reciproco che presuppone rispetto, un'attenzione personale ai dettagli, cercare di trasformare la pesantezza in leggerezza. Non può sperare chi non ha sperimentato un bene. Quindi il nostro lavoro diventa un'occasione per noi. Chi decide di fare il medico deve avere una spinta ideale facendo diventare il lavoro una missione. Il servizio deve essere associato alla gratuità intesa come ciò che non ha prezzo”.