Il mondo del podcast entra a teatro per ripensare la casa
“La casa che abbiamo in comune” è il nuovo format che il Teatro popolare d'arte ha lanciato nel mondo del podcast. Da sabato 27 marzo, sulle piattaforme Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e Spreaker, è disponibile gratuitamente la prima puntata. In tutto saranno quattro con cadenza quindicinale. Al centro della produzione, realizzata in collaborazione con la Biblioteca comunale di Lastra a Signa, cintura metropolitana di Firenze, c'è il tema dalla casa come luogo di appartenenza, di ricordo, soglia che divide dal resto del mondo. Tutti concetti oggi fortemente messi in discussione dalla pandemia ma anche dalle condizioni economiche sempre più precarie.
Da più di un anno la cultura è certamente uno dei settori che sta maggiormente risentendo dello stop imposto dall'emergenza sanitaria. Teatri, cinema e musei sono chiusi al pubblico anche se il lavoro degli operatori non si è mai fermato. Lo testimonia questo podcast che non sostituisce le rassegne e gli spettacoli ma vuole comunque rappresentare una modalità per raggiungere il pubblico che solitamente affollava le platee.
Ho incontrato due dei tre promotori dell'iniziativa che andrà avanti fino a maggio. Si chiamano Matteo Zoppi e Francesco Giorgi che, insieme a Gabriele Bonafoni, si sono chiesti cosa sia oggi la casa, se sia l'ambiente dove ci si sente al riparo dal mondo esterno, se ci sia qualcosa che faccia di una casa la nostra casa, il nido a cui ritornare per ritrovare un equilibrio. Visto che lo strumento dei podcast è molto vicino al mondo giovanile, si sono chiesti anche se oggi, per le nuove generazioni, questa casa esista ancora; ragazze e ragazzi che sono spesso costretti a cambiare continuamente abitazione, città, nazione, o interi popoli in fuga dalla violenza.
Con Matteo e Francesco ci siamo dati appuntamento nel foyer del Teatro delle Arti che la loro compagnia teatrale, attiva dagli anni '80, gestisce da un decennio. Distanziati e mascherati, in quello che per la Toscana è stato il giorno del nuovo ingresso in zona rossa, abbiamo approfondito il loro progetto che non è una scatola chiusa e preconfezionata. Dopo il lancio della prima puntata, infatti, si attendono le reazioni degli ascoltatori e nuove ricerche perché l'obiettivo è quello di attivare processi creativi e di immaginazione, specialmente sul territorio di riferimento del Teatro e della Biblioteca, anche per rinforzare il legame e la collaborazione tra queste due importanti istituzioni culturali.
“La casa che abbiamo in comune” si inserisce all’interno del “POP d’arte podcast”, il progetto di podcast del Teatro popolare d’arte. Già nei mesi scorsi, infatti, la compagnia aveva prodotto “Fiabe jazz” nell'ambito del cabaret e “Previsioni nel tempo” di sei puntate per la narrativa. “Il nostro obiettivo è quello di portare produzioni originali dalla scena al formato audio”, mi spiega Matteo. “Ciò ci permette di mantenere un contatto con i nostri abbonati e con il nostro pubblico abituale e, perché no, anche allargarlo perché con questa operazione si sono avvicinate persone che magari non conoscevano direttamente la nostra realtà”, aggiunge Francesco.
Mi interessa anche sapere la genesi del podcast, in che modo cioè sono arrivati alla scelta della casa come sottofondo della loro produzione. E' Matteo a raccontare il retroscena dell'operazione. “La casa è un tema che apre a una serie quasi infinita di possibilità e sicuramente nella sua scelta ha influito il contesto in cui siamo. Tutto è partito da una riflessione sul palco dove eravamo a fare delle prove di lettura di un testo. In quel momento è nata la domanda sulla casa, cioè che nesso ci fosse tra il testo che stavamo studiando e il concetto di casa. Successivamente, siamo arrivati a concepire meglio cosa ci aspettiamo dal teatro che uscirà fuori da questo periodo e ci è venuto in mente il paragone con la casa. Infine, ci siamo sentiti con la Biblioteca con cui da tempo volevamo intraprendere una collaborazione più stretta”.
La prima puntata è apparsa sul web il 27 marzo che non è una data a caso in quanto il 27 marzo era stata annunciata la riapertura dei luoghi della cultura nelle regioni in zona gialla. Circostanza che poi non si è verificata com'era abbastanza prevedibile. Ma cosa dobbiamo aspettarci dalle prossime puntate? Come si snoderà questo percorso audio? “Abbiamo dei temi da affrontare però stiamo costruendo e vivendo la cosa molto in base al materiale che riceviamo, a quello che il periodo ci lascia vista la cadenza di ogni due settimane”, assicura Matteo. “Vogliamo lasciare la massima libertà al narratore e a coloro che registrano dei contributi per poi cogliere gli spunti utili per il montaggio. Non ci sono domande specifiche. Lasciamo parlare e in seguito tiriamo le fila in modo che il tutto siamo quanto più aderente possibile al concetto che vogliamo esprimere”.
E' un lavoro in fieri questo podcast che però già sta lasciando alcuni spunti interessanti. Matteo: “Mi accorgo che chiedendo un'intervista, cercando un libro o un filo narrativo, questo concetto di casa ritorna costantemente. Stiamo cercando anche di evidenziare il contrasto tra la casa di appartenenza e la relatività con la casa che non esiste o che uno non trova mai”. C'è infatti anche una negazione di casa, come giustamente sottolinea Francesco. “In questo momento il nostro impegno è proprio quello della divulgazione, ossia fare una narrazione alternativa a quella che normalmente si sente dire. La casa viene identificata con le quattro mura mentre in realtà è un concetto molto più ampio e anche chi non ha casa può ritrovarla nel rapporto umano. Solo così cambia la prospettiva e cambia il mondo”.
Nel corso di quest'anno è cambiato il concetto di casa, nelle quali ci siamo tutti rinchiusi nei lunghi mesi di lockdown, ma cambierà anche il concetto di teatro. Lo chiedo a due esperti del settore che tutti giorni sono alle prese con nuovi percorsi da aprire per il loro futuro. Matteo: “Quando tutto questo sarà finito, sicuramente avremo un teatro diverso da quello che ci siamo lasciati alle spalle. Anche soltanto portare la stessa narrazione di un anno fa sarebbe assolutamente dannoso per il proprio pubblico ma anche per gli artisti stessi. Significherebbe non essere capaci di trovare un'alternativa a ciò che il teatro era prima”. Francesco: “Se il teatro deve imparare qualcosa da questo periodo è quello di concepirsi come teatro esploso cioè uscire totalmente fuori. Mentre prima ci siamo chiusi in queste quattro mura, ora abbiamo capito che il teatro deve essere più partecipativo”.
Non c'è quindi nessuna voglia di piangersi addosso, bensì di rimboccarsi le maniche nonostante in quest'ultimo anno il mondo della cultura sia stato abbastanza maltrattato. Cosa ne pensano i miei interlocutori? Per Matteo, “all'inizio è stato un problema a livello istituzionale che dove non si vedevano molte soluzioni. Alcuni hanno pensato che, vista tutta la potenzialità di internet, magari si poteva fare a meno del teatro, del cinema, delle biblioteche, dei musei, almeno per un po'. Adesso questo tipo di fruizione è totalmente satura e quindi si sente il bisogno di un ritorno in questi luoghi”. Francesco invoca il famoso retaggio culturale: “Molto spesso non si conoscono le dinamiche che stanno dietro al mondo della cultura. Gli stessi amministratori o il legislatore non sanno che chiudere un teatro è follia perché dentro c'è gente che lavora, prepara spettacoli, produzioni. Una realtà culturale vive tutti i giorni. Dopo un anno, però, ci siamo resi conto che manca a tutti”.
Ascolta la prima puntata del podcast