I miei dodici anni in Brasile, al fianco degli abitanti delle palafitte
Don Paolo Sbolci è un prete fiorentino. Ha sessant’anni. Gli ultimi dodici li ha trascorsi in Brasile. E’ recentemente tornato in Italia, dopo aver concluso la sua partecipazione alla missione che la Diocesi toscana ha impiantato a Salvador Bahia da circa un ventennio.
L’esperienza di don Paolo è stata molto ricca e molto intensa. Ce l’ha raccontata in una fredda serata di febbraio, mentre in televisione andava in onda l’ennesima maratona del Festival di Sanremo. L’appuntamento è nel circolo MCL vicino casa nostra. Quando entriamo, don Paolo non è nella sala grande affollata di gente ma se ne sta in disparte in una saletta a sbirciare tra i cartelloni che sono appesi alle pareti.
Occhi chiari, capelli e barba folte e bianche, ci viene incontro con un grande sorriso. Ci presentiamo ed inizia subito a parlare della sua storia che ha avuto un punto di svolta quando gli è stato chiesto di diventare “fidei donum”, ossia un prete in prestito a tempo determinato ad un’altra Chiesa.
“La messe è molta ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe. Andate, ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Prende le mosse da queste parole di Gesù ai 72 discepoli, contenute nel Vangelo di Luca, la testimonianza di don Paolo, invitato dalla nostra parrocchia per un incontro su “Sacerdote e prossimo, in Brasile”, dopo i suoi dodici anni di servizio pastorale in Sud America.
La Diocesi di Firenze ha una missione in Brasile, più precisamente a Salvator Bahia. Don Paolo ha detto di sì al vescovo quando gli ha proposto di partire e insieme ad altri confratelli sacerdoti, prima con don Luca e poi con don Marco, ha messo in piedi e portato avanti tanti progetti. “Ho avuto la grazia di essere sempre in compagnia e mai da solo. Essere in due, evangelicamente parlando, è il primo segno di comunità e di annuncio che Dio è comunione”. Un tratto distintivo della missione è certamente anche l’essenzialità. “Siamo stati mandati in situazioni dove se uno cerca cose in più non le trova. Trova, però, l’accoglienza che fa parte della missione. Questa esperienza non è banale soprattutto quando ci sono difficoltà oggettive in una realtà da cui si percepisce una discreta distanza”. E poi c’è il sentimento della gioia, “perché viviamo la stessa gioia di Gesù che si dona, viene accolto e realizza la missione del Padre che si rivela ai piccoli”.
Il quartiere di Salvador in cui insiste la parrocchia guidata dai sacerdoti fiorentini si trova dal 2007 in una zona di palafitte dove vi abitano persone che si considerano dimenticate da tutti. “L’esperienza in Brasile – raccontato don Paolo – è iniziata ai tempi del Vaticano II quando al cardinal Florit arrivò da Salvador una richiesta per guidare alcune parrocchie che allora avevano 100mila abitanti ciascuna. Il vescovo aveva già autorizzato don Renzo Rossi a partire per l’Africa dopo l’enciclica di Pio XII in cui parlava di fidei donum e quindi della necessità di prestare preti alle Chiese giovani. A questo punto don Renzo fu mandato in Brasile dove vi rimase 33 anni”. Chi sono i fidei donum? “Sacerdoti che hanno la caratteristica di svolgere una missione limitata nel tempo. A livello nazionale si parla di cooperazione tra Chiese che riguarda i preti ma ultimamente anche i laici. La differenza sta nel fatto che uno parte in una dimensione ecclesiale, cioè è mandato dalla Chiesa”.
Dopo aver raccontato la natura del suo essere missionario a tempo, don Paolo vuole fare però qualche esempio del suo servizio in Brasile, cominciando dal progetto partito nel 2012 che coinvolge ben 170 bambini che il pomeriggio vengono accolti per fare i compiti e tante altre attività come musica, teatro, danza e pittura. “L’obiettivo è quello di farli esprimere e valorizzare le loro capacità”. Ovviamente la vita della parrocchia è più complessa: ci sono la liturgia, la catechesi, la carità, ma anche la pastorale della salute, cioè la visita ai malati, e l’apostolato della preghiera. Ci sono poi gruppi particolari come quello del rosario degli uomini, dell’accoglimento che si prende cura delle persone in chiesa la domenica e quello della catechesi per adulti per l’ascolto e la condivisione della Parola di Dio. Più in sofferenza invece il settore giovani e quello dei catechisti. In generale, sottolinea don Paolo, “c’è la ricerca di una relazione più che cose da fare”, una prospettiva in cui si muovono bene anche le Chiese evangeliche e i Testimoni di Geova.
Dal punto di vista devozionale ci sono tante differenze tra Brasile ed Italia. Lo testimonia il canto “Lungo le strade” che da noi è intitolato “Santa Maria del cammino”. “La devozione a Maria è molto forte come quella a tutti i Santi. Il canto esprime la prossimità di Maria nelle strade della vita, nelle situazioni di lotta e di difficoltà. La lettura iconografica è molto diversa dalla nostra. La Chiesa del Brasile nel vissuto delle persone non ha avuto radici e quindi le immagini devozionali sono per loro una vicinanza di Maria”.
Quando si parla invece della situazione politica e sociale del Paese, don Paolo non può non confessare che, anche se la vittoria di Lula su Bolsonaro è stata una buona notizia, le condizioni del Brasile, fino a poco tempo fa tra le maggiori potenze mondiali, sono molto peggiorate. “Pensate che una legge recentemente approvata vieta investimenti in sanità e istruzione per i prossimi venti anni. Questo progetto governativo avrà conseguenze devastanti sulla popolazione. Andrà avanti solo il settore privato e coloro che potranno accedervi. Già attualmente l’aspettativa di vita è molto bassa, intorno ai settant’anni. Il tasso di mortalità più alto non si registra più tra i bambini ma nella fascia che va dai 15 ai 25 anni perché molti ragazzi muoiono per essere coinvolti nella criminalità o nel traffico della droga, visto che il lavoro scarseggia. La nostra presenza, quindi, è un lumicino di speranza. Facciamo la nostra parte in una situazione sicuramente difficile”.
Per questi motivi, don Paolo giudica molto importante la presenza di volontari che arrivano a Salvador da altre parti del mondo. “Questo fa sentire le persone considerate e non abbandonate e vi assicuro che vale più dei soldi”. Cosa si può fare da qui? è stata la domanda ricorrente nel corso della serata. “Conoscere è la prima cosa, poi pregare. E chissà che la preghiera non smuova le coscienze a cambiare il nostro stile di vita. Infine chi può potrebbe anche progettare un viaggio per rendersi conto da vicino delle condizioni di vita di quella gente”.
Tornato in Italia, il prete fiorentino ancora non ha deciso cosa fare prossimamente. “Sono in attesa. Questi incontri mi aiutano a rivedere questa esperienza. Come Nicodemo chiedo al Signore di rinascere. Per il momento parto per un mese di esercizi ignaziani e poi per il cammino di Santiago”. Prima di salutarci però ci lascia un messaggio finale che chiarisce anche la natura della missione: “L’essere in missione è l’essere Chiesa. Non esiste Chiesa senza missione. Cambiano luoghi e tempi ma l’annuncio di Cristo è sempre lo stesso”.