“Con l'autismo si convive. Ecco la nostra esperienza di genitori”
Ci sono persone eroiche che ciascuno di noi ha incontrato come un dono nella propria vita, persone che con energie misteriose riescono a rendere la vita luminosa. Di solito questa luce la si vede negli occhi. Da lì si sprigiona con una tale semplicità e forza da rimanerne quasi sopraffatti. Quando incontriamo questi “eroi” della vita, che papa Francesco ha chiamato i “Santi della porta accanto”, intuiamo anche il senso della vita stessa: la luce misteriosa che si dà agli altri come capacità di ascolto, come gesto di puro disinteresse, come amore, diventa qualcosa di così concreto da ridarci la speranza, soprattutto in questo tempo così difficile.
Anche nella mia vita ci sono due persone di questo tipo, che mi vengono subito in mente e che sono unite da un comune progetto: stare accanto e insieme a un figlio autistico. Sono Daniele Buzzegoli e Silvia Calonaci, i genitori di Francesco e Niccolò. Conosco questa famiglia fiorentina da alcuni anni e ho potuto osservare da vicino come la vita si rivela nel suo mistero e nella sua vera gioia. Il papà è un calciatore del Novara dove è tornato per concludere una brillante carriera. La mamma, invece, lavora nell'azienda di famiglia e si dedica maggiormente a Francesco che ha 14 anni e presenta una sindrome dello spettro autistico.
Ci sentiamo al telefono con Silvia mentre si trovano tutti e quattro in Piemonte. Hanno approfittato della zona rossa e delle vacanze pasquali per trascorrere un po' di tempo insieme. Niccolò segue la didattica a distanza dato che le scuole sono chiuse mentre Francesco è in compagnia della mamma. Daniele, invece, va ad allenarsi per preparare le partite del campionato di Lega Pro nel quale gareggia con la sua squadra. Le rubo qualche minuto per parlare con lei in vista del 2 aprile che è la Giornata mondiale per la consapevolezza dell'autismo. In Italia sono circa 600mila le persone che devono fare i conti con questo disturbo e ogni anno i nuovi casi sono circa quattromila.
Ci soffermiamo subito a fare un punto della situazione dopo un anno di Covid che per Francesco è stato un periodo di alti e bassi. “I ragazzi autistici sono molto abitudinari, hanno bisogno di scadenze fisse. Quindi ritrovarci chiusi in casa, senza allenamenti, senza terapia, senza scuola è stata dura. Nel primo lockdown, Francesco ha reagito molto bene. Per lui le video chiamate erano una novità e ha aiutato tanto anche la classe delle medie che lo ha sempre coinvolto. Ora la situazione è diversa perché anche in zona rossa può andare a scuola ma è solo, non ci sono i suoi compagni. Perciò in lui sono nate tante domande anche perché ama il contatto fisico che in questo momento bisogna evitare”.
Le chiedo poi di fare un passo indietro e di parlarmi del momento in cui hanno compreso il problema di Francesco. Silvia mi dice che “la nostra storia è stata diversa dalle altre nel senso che essendo il secondo figlio vedevo sin da subito la differenza con Niccolò. All'inizio ci parlavano di un disturbo psico-motorio che sarebbe scomparso con il passare degli anni. Successivamente, quando Francesco aveva tre anni, ci siamo rivolti ad una logopedista. Dopo tre settimane iniziò a parlare. Ricordo che la prima parola fu palla. Nel frattempo la dottoressa non poteva più seguirci e così ci indirizzò ad una neuropsichiatra infantile che, senza mezzi termini, ci disse che il bambino era autistico. Quindi da quel momento abbiamo deciso di seguire il metodo Aba che è molto importante soprattutto per quanto riguarda il comportamento”.
Di anni ne sono trascorsi 10 e in tutto questo tempo Daniele e Silvia hanno capito benissimo che l'autismo non è una patologia ma una condizione da cui, se non si può guarire, è però possibile ottenere miglioramenti significativi. “E' chiaro che come genitori non potevamo arrenderci dinanzi alla diagnosi. Abbiamo consultato tanti luminari con la speranza che nostro figlio potesse guarire. Poi abbiamo capito che con l'autismo bisogna conviverci e quindi è meglio seguire una strada soltanto. Devo dire che Francesco ha fatto grandissimi progressi: ha iniziato a leggere e a scrivere, sa stare benissimo insieme agli altri. Chi lo avrebbe mai detto?”.
Un aiuto lo hanno trovato anche in una rete di genitori che hanno lo stesso problema e che si sono riuniti sotto l'associazione “Un calcio per tutti”, uno straordinario laboratorio di sport e umanità, presieduto dallo stesso Daniele, dove i ragazzi autistici possono stare insieme e giocare a calcio, oltre a portare avanti tanti altri progetti. “Purtroppo ci sono ancora tante famiglie che fanno difficoltà a portare fuori i loro ragazzi. L'associazione vuole essere uno spazio per loro affinché si sentano bene. Non siamo soli, bisogna uscire di casa, aprirci il più possibile al mondo che c'è fuori e dare loro anche la possibilità di trascorrere del tempo con i nonni ad esempio”.
In casa, però, non c'è solo Francesco. Sono perciò curioso di sapere com'è il rapporto con il fratello Niccolò che a breve compirà 18 anni. “Al maggiore gli abbiamo sempre detto tutto, lo abbiamo coinvolto, senza dargli troppe responsabilità rispetto alla gestione di Francesco. Lui è stato bravissimo perché è il suo mondo, gli viene naturale. Hanno un rapporto speciale, si cercano continuamente”.
L'ultima parte della telefonata l'abbiamo dedicata ad immaginare il futuro di questo figlio. Per fortuna, in Silvia prevale l'ottimismo. “Già oggi stiamo lavorando su questo. Francesco ha già fatto volentieri l'esperienza di una convivenza con altri ragazzi che hanno il suo stesso problema o comunque qualche forma di disabilità. Mi auguro che un giorno possa andare a vivere con loro per aiutarsi a vicenda. Forse è un'utopia ma a me piace pensarla così e faremo tutto il possibile affinché questo progetto si concretizzi”.
Testimonianze come quella di Silvia, di Daniele e dei loro due figli speriamo contribuisca ad accendere un faro su una realtà che, nel nostro Paese, riguarda tra l'1 e il 2 per cento della popolazione. Sono ancora tante le domande inevase sull'autismo che ha probabilmente cause genetiche e compromette qualitativamente l'interazione sociale e la comunicazione verbale e non verbale, oltre a indurre modelli di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati.