L'omelia di Betori alla Giornata d'Inizio di Firenze e della Toscana
Nell'auditorium di Spazio Reale si è svolta ieri la Giornata d'Inizio Anno per il movimento di Comunione e Liberazione di Firenze e di tutta la Toscana. Il gesto, introdotto dal responsabile regionale Paolo Carrai, è stato guidato dal vescovo di San Miniato, mons. Giovanni Paccosi. Dopo alcune testimonianze, il cardinale Giuseppe Betori ha presieduto la Santa Messa durante la quale ha pronunciato l'omelia che riportiamo. Il testo non è stato rivisto dall'autore.
La riflessione che muove dalla pagina del Vangelo, la mia, in quanto sappiamo bene che nella configurazione della Liturgia della Parola è il Vangelo che costituisce la chiave interpretativa dell'intera celebrazione eucaristica.
Il testo del Vangelo secondo Matteo proposto oggi dalla Liturgia a prima vista appare un invito a contrapporre il fare al dire con la condanna di chi dice “Sì, Signore” ma poi non esegue quanto gli è stato ordinato e chi invece dice “Non ne ho voglia” ma poi si pente e va a lavorare nella vigna del Padre.
Se l'insegnamento di Gesù si riducesse a questa contrapposizione ci troveremmo di fronte a un incentivo all'agire che si presterebbe a giustificare le nostre istanze di attivismo; un modello di vita di fede che si concentra sulle nostre opere, sulle nostre organizzazioni e ad esse affida il potere di salvare e di salvarci.
Proprio da questo Papa Francesco ci ha messo in guardia nel suo discorso nella nostra cattedrale fiorentina ormai sei anni fa, segnalando questa tentazione come la tentazione del pelagianesimo. “Essa spinge la Chiesa – parole del Papa – a non essere umile, disinteressata, beata, e lo fa con l'apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette, perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività – continua il Papa -. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso e questo trova la sua forza non nella leggerezza del soffio dello Spirito - e ancora concludendo -. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso, incapace di generare domande, dubbi, interrogativi ma è viva, sa inquietare, sa animare, ha volte non rigide, ha corpo che si muove, si sviluppa, ha carne tenera. La dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo”.
Come ci ricorda don Giussani, prima di ogni fare, prima di ogni nostro tentativo, c'è – parole sue - “qualcosa che viene prima: l'incontro con la presenza viva di Gesù Cristo che diventa presente sotto la tenda, sotto l'aspetto di un'umanità diversa. L'incontro, l'impatto è con un'umanità diversa che ci colpisce perché corrisponde alle esigenze strutturali del cuore più di qualsiasi modalità del nostro pensiero o della nostra fantasia. E' qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare che viene prima di tutti. E' qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato ma solo di essere visto, intercettato che suscita uno stupore, desta un'emozione, costituisce un richiamo, muove a seguire. L'imbattersi in una presenza di umanità diversa viene prima non solo all'inizio ma in ogni momento che segue l'inizio perché non vi è alcuno sviluppo se quell'impatto iniziale non si ripete se l'avvenimento non resta cioè contemporaneo”. Queste le parole di Giussani.
Lasciata dunque da parte l'impressione di poter catalogare il Vangelo come un richiamo al fare invece che al dire, dobbiamo prendere atto che nell'orizzonte di Gesù c'è qualcosa che va ben oltre l'invito al fare. Ciò che Gesù chiede è compiere la volontà del Padre. Quindi di non affidarsi alle opere ma di porre ogni fiducia nel cuore di chi ci ama: il Padre. E il Padre, a cui consegnare la nostra volontà, non è un padre umano, come quello della parabola, ma il Padre di tutti gli uomini, il Padre stesso di Gesù.
E se andiamo oltre nella narrazione evangelica incontriamo nelle parole di Gesù lo svelamento di questa volontà. Gesù lo fa con una chiarezza che non ammette repliche perché ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo a cui è rivolta la parabola – importante la destinazione delle parole di Gesù per comprenderle -, a costoro, coloro che hanno in mano le sorti della gente, Gesù oppone i pubblicani e le prostitute indicando in queste categorie di ultimi della società, ultimi anche della stessa vita etica e religiosa, coloro che passano avanti nel Regno di Dio e questo perché? Perché hanno creduto a Giovanni che era venuto a chiamare alla conversione, indicando in Gesù la via della giustizia. Non vi è detto che i pubblicani e le prostitute siano migliori dal punto di vista etico ma che, pur nelle fragilità delle loro esistenze, hanno accolto una luce, quella della fede, capace di rischiarare quelle fragilità.
Fare la volontà del Padre è dunque accettare nella fede Gesù e il suo Vangelo nella nostra vita, di orientare la nostra vita a Lui, con le nostre debolezze ma anche con la forza che non viene da noi ma dall'incontro con Cristo. E' questa la conversione che anche il profeta Ezechiele ha invocato come condizione per vivere e non morire nella prima lettura. Accogliere il dono del perdono che ci rende capaci di orientarci al bene.
Come per gli uomini che duemila anni fa, proprio perché bisognosi, intercettavano tutta la novità di Cristo e si lasciavano attrarre da Lui, così anche per noi, come afferma don Giussani, la conversione è una sola cosa: riconoscere che cosa è Cristo e, davanti a Lui, che cosa sono io. La parola di Gesù è una promessa di salvezza per tutti, un'indicazione a collocare la vita nell'orizzonte della fede come affidamento al Padre. La rivelazione che c'è di fronte a noi, la possibilità di una conversione, significa incontrare e accogliere Cristo. Non ci sono pre-condizioni per questa conversione, non ci sono cose da fare. Il problema non è neanche essere ineccepibili dal punto di vista etico perché, come vi ha raccontato tante volte don Giussani in un'immedesimazione con l'apostolo Pietro, “uno può essere pieno di sbagli. Questo è il valore del nostro concetto di morale che nasce dal sì di Pietro. Non nasce come osservazione di leggi ma come affezione a una grande Presenza scoperta.
“Mi ami tu?”. San Pietro poteva essere lordo di sbagli, fin sulla testa, e avrebbe detto sì lo stesso perché era sì. Questo è l'attacco che identifica la morale. In questo senso Gesù disse: “Vedrete pubblicani e prostituite precedervi nel Regno dei Cieli”. Non è un paradosso, l'ha detto Lui. La vera morale è il riconoscimento di una appartenenza. Io appartengo a Te, o Signore, qualunque cosa io sia fammi diventare diverso, con la sorpresa del riconoscimento stupito di una presenza che è pertinente al mio cuore, a quello che il mio cuore desidera”. Fin qui le parole di Giussani.
Accettare nella fede Gesù significa avere in noi gli stessi suoi sentimenti, ci ha ricordato l'apostolo Paolo. Sono i sentimenti di umiltà e di servizio con cui Egli ci ha amati fino al dono della Sua vita. “Svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo. Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Sono i sentimenti di Cristo che Papa Francesco ci propose sempre sei anni fa nella nostra cattedrale. Lì li propose in tre termini: umiltà, disinteresse e attitudine. Qui le sue parole: “Questi tre tratti che oggi voglio presentare alla vostra meditazione sull'umanesimo cristiano nasce dall'umanità del Figlio di Dio. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all'altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a se stessa e i propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini infine sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto. E' uno specchio che non mente”.
In queste parole del Papa troviamo la sintesi della nostra dedizione a Cristo nella Chiesa e nel mondo. Ciò che è in gioco è innanzitutto la nostra crescita nella fede che deve assumere la forma della conformazione a Cristo, ha chiesto San Paolo. Non c'è spazio per altri poli di attrazione che nel confuso agitare di sensazioni e opinioni ci possano incantare e sedurre. Noi siamo di Cristo perché Cristo si è fatto nostro, fratello e salvatore nostro. Al nostro camminare nella fede non per sentieri solitari bensì condividere i passi, a volte anche faticosi, di un popolo, la Chiesa. L'esperienza della Fraternità e della condivisione nella fede è altrettanto decisiva dell'esperienza dell'unione a Cristo perché il popolo dei suoi discepoli altro non è che il suo Corpo. E' questo il senso stesso dell'Eucarestia e anche la radice di quello sguardo oltre che deve farci Chiesa in uscita sulle tracce della presenza del Signore nella storia perché il cammino della fede è anche immersione nel tempo, dedizione verso tutti, con lo sguardo di Gesù che ci permette di leggere la storia con gli occhi di Dio e quindi di leggerla nella verità e con il suo cuore e quindi nella speranza.