Una testimonianza in vacanza: la libertà è la dipendenza da Dio
Dal 20 al 25 luglio, a San Martino di Castrozza, si è tenuta la vacanza degli adulti di Comunione e Liberazione a cui hanno partecipato la comunità di Arezzo e una parte della comunità di Firenze.
Cinque giorni all'insegna della preghiera, delle passeggiate, dei canti e dei giochi che avevano come filo conduttore il tema “Ecco il paradosso: la libertà è la dipendenza da Dio” preso dal capitolo 8 del Senso Religioso.
Il testo di don Luigi Giussani è stato anche l'oggetto delle testimonianze che alcuni membri della comunità hanno proposto ai partecipanti. Una di queste potete leggerla sul nostro sito.
Ciao a tutti. Comincio dicendo che desidero ringraziare per due motivi gli amici che mi hanno chiesto di fare questa breve testimonianza.
Il primo è che ci sono momenti nella vita in cui si sente proprio il bisogno di prendersi una pausa e ripercorrere con calma, senza le continue incombenze quotidiane, le tappe della nostra esistenza. Un viaggio che, anche nei momenti difficili e bui, ci ha portato a provare un sentimento di riconoscenza e gratitudine verso chi ha condiviso con noi il cammino e le prove.
Il secondo è che questo loro invito mi ha costretto a paragonare la mia esperienza con il titolo di questa vacanza: “Ecco il paradosso: la libertà è la dipendenza da Dio” come scrive don Giussani nel Senso Religioso. Non c’è nulla di sostituibile a Dio, nemmeno le relazioni con gli altri, perché l’uomo è libero da ogni potere solo perché è “rapporto diretto con il Mistero”.
Questo passaggio della Scuola di Comunità mi ha molto provocato perché descrive in maniera cristallina la parabola della mia vita. Fino a dieci anni fa, pensavo di racchiudere la parola libertà nel recinto dell'amore per una donna, dell'indipendenza economica, della carriera lavorativa, della rete di relazioni amicali, della riconoscibilità sociale, di un futuro pieno dei miei progetti e delle mie attese. Ero convinto che tutte queste cose potessero soddisfare il mio bisogno di felicità ed infatti Dio, di cui pur avevo sentito parlare da quando ero piccino, sembrava non c'entrare con la mia vita.
E' arrivato però un momento in cui il castello di certezze sulle quali avevo poggiato tutta la mia libertà è crollato. E' successo quando abbastanza inaspettatamente ho perso il lavoro. Dopo anni passati intensamente a fare quello che avrei voluto fare da sempre, cioè il giornalista, ecco che mi sono ritrovato a non sapere più quale era il mio posto nel mondo. Il telefono non squillava più, quelli che consideravo amici erano spariti, nessuno mi offriva un'opportunità per ricominciare; insomma la realtà diventava faticosa e improvvisamente avevo perso anche quella libertà che mi sembrava di possedere e su cui avevo costruito tutto. All'inizio mi sembrava di reagire bene ma poi sono stato aggredito dal dolore. Un senso di vuoto, una vertigine.
Vorrei leggervi un pezzetto de “La mattina dopo” di Mario Calabresi che parla della sua esperienza ma descrive benissimo quello che è successo anche a me. “I primi giorni sono come una corrente a cui non si riesce a sfuggire: non fai che pensare a quello che hai perso. Come un fiume in piena che ti trascina, ogni tanto incontri una roccia o un ramo e per un attimo rallenti, metti la testa fuori, fai un respiro profondo. Per un momento t'illudi di aver razionalizzato, di aver trovato una spiegazione convincente capace di mettere da parte la sofferenza o di contenerla, ma l'istante dopo l'hai già dimenticata e sei tornato in balia della corrente. Le cose peggiori sono il silenzio e la fine di un tempo scandito da riti e abitudini. Ogni volta che me ne rendevo conto sentivo quel vuoto allo stomaco che si prova quando ci si butta dall'alto”.
Mi sentivo esattamente così ma in realtà allora non capivo, e poi ci ho messo un bel po' per capirlo, che quella circostanza, come tutte le altre che sono accadute successivamente, sarebbe stata un fattore essenziale della mia vocazione. Il Mistero mi stava chiamando e attendeva soltanto il mio “sì” per farmi un regalo davvero grande che è poi questa compagnia al mio Destino.
Quando il peso della perdita del lavoro si era fatto insostenibile, Rosaria, la mia fidanzata che poi è diventata mia moglie, mi ha proposto di sentire un amico che già si trovava a Firenze per verificare la possibilità di trasferirci e provare la strada dell'insegnamento. In poco tempo, quello che sembrava soltanto un obiettivo lontano è diventata una possibilità concreta.
Faccio due mesi di supplenza a scuola, cominciando a insegnare religione alle elementari. Trascorsa l'estate, vengo richiamato per una nuova supplenza, questa volta annuale, presso una scuola media. Sin dai primi giorni, incontro una collega che si presenta con un grande sorriso, si interessa a me, mi introduce agli altri colleghi. All'inizio penso sia scattata soltanto una simpatia umana, anche se abbiamo parecchi anni di differenza. Passano i giorni ma lei non molla, continua a entrare anche nelle mie necessità più materiali. Mi invita a cena a casa, conosco il marito. Un giorno in sala professori mi regala un numero di Tracce, mi porta gli avvisi della comunità, mi fa leggere gli appunti di qualche assemblea.
Insomma, non avevo mai visto una cosa del genere. Una persona che mi aveva a cuore senza alcun interesse, senza alcun scopo. Mi sentivo stimato e voluto bene per quello che ero, non per ciò che rappresentavo, per il mio lavoro. La nostra amicizia cresce e così decido di non mollarla più e in breve tempo conosco i suoi amici di Scuola di Comunità e del gruppetto di Fraternità. Soltanto dopo avrei capito che, attraverso l'incontro con questa collega, era il Mistero che mi era venuto incontro...
Proprio quando facevo più fatica, in quel momento ero anche solo perché Rosaria mi avrebbe raggiunto successivamente, Gesù mi ha fatto capire che era inutile intestardirsi sui propri fallimenti ma valeva la pena fondare la mia speranza soltanto su di Lui. Avevo trovato un luogo, un'amicizia che mi offriva un'ipotesi di risposta al mio desiderio di compimento. Pensavo di essere venuto a Firenze da Benevento per trovare lavoro ed invece è avvenuto l'Incontro. Quel Gesù di cui avevo sentito parlare al catechismo, di cui avevo studiato tutto all'università, si era fatto carne soltanto allora nei volti di quelli che poi sono diventati i miei amici.
Mi commuove ancora oggi ripensare al fatto che un incontro, una storia particolare ha dato la direzione decisiva alla mia vita, alla nostra vita. Dico nostra perché questa strada è stata piano piano condivisa anche da Rosaria che, venendo da un'altra storia, quella dell'Azione Cattolica, certamente si è presa il suo tempo ma quando ha scelto di esserci è stato un spettacolo vederla rifiorire in tanti aspetti della sua vita che, anche a causa mia, aveva dovuto tenere da parte.
Quando succede una cosa così grande nella vita, imparagonabilmente grande, proprio in forza della sua eccezionalità si corre inevitabilmente il rischio di pensare che da quel momento in poi tutto sarà più facile, che non sarà più necessario faticare, che si sarà diversi dagli altri perché le cose andranno finalmente bene. Come sappiamo anche grazie alla testimonianza di tanti nostri amici, il sacrificio, la sofferenza, non sono risparmiati a chi incontra il senso della vita. In questi anni lo abbiamo capito anche noi in tanti episodi che ci sono accaduti: problemi di salute, incomprensioni, difficoltà al lavoro, senso di inadeguatezza, lutti, lontananza dalle rispettive famiglie.
Mai, però, è venuta meno la certezza nella strada e la speranza nel Destino buono. Questo non perché siamo bravi ma è evidente che è una grazia sentirsi liberati nel rispondere a Lui in tutto ciò che accade. “E' qualcosa che non possiamo generare noi. Viene da Dio, è donata da Dio. Accade, e noi siamo qui perché è accaduto Cristo nella nostra vita”, ci ha detto don Giovanni Paccosi negli Esercizi a Rimini.
Se Cristo è accaduto nella mia vita, allora non posso più riporre la mia speranza in ciò che posseggo, in ciò che ho già, nelle mie cose né tanto meno posso fuggire dalla realtà. Voglio fidarmi ed affidarmi perché soltanto la speranza che viene da Dio dona alla mia povera vita una prospettiva infinita, eterna. Tante volte le cose non vanno come vorrei ma mi accorgo che c'è un punto fermo che non cede, c'è un senso nella mia vita. Ed allora desidero soltanto rimanere attaccato a questa amicizia perché io da solo non sono capace di muovere un passo.
Mi rendo conto che più seguo questa strada, più obbedisco alla realtà, più scopro degli aspetti di me stesso che mi sorprendono e di cui non mi pensavo capace assolutamente. Diceva Enzo Piccinini nel 1985: “Pensate quando succede un affetto: uno si alza, si alza la mattina che non si accorge più nemmeno della stanchezza. Io ho visto certi cambiamenti impressionanti in questo senso, ragazzi, dei superamenti di ogni capacità e di ogni tentativo di autoanalisi, nel senso dell'avvenimento di qualcosa d'altro, altro, imprevisto. E uno si sente coinvolto in sé con tutto ciò che lo circonda, il mondo intero”. E' esattamente quello che mi è accaduto.
Più divento cosciente dell'incontro fatto, più desidero implicarmi con tutta la realtà. E quindi ecco il coinvolgimento nel Centro Culturale, l'organizzazione del Pellegrinaggio del 7 settembre, la guida di gruppetto di Scuola di Comunità, l'invito alla Colletta Alimentare dei miei alunni e dei bambini del catechismo, la caritativa “A casa di Simone” a Rignano, i Cavalieri, la scuola. Tutta la vita diventa unita e grida di questo infinito che ti viene incontro attraverso le circostanze.
A proposito dell'imprevisto, mi piace sempre ricordare un episodio che mi è accaduto due anni fa a scuola che mi ha introdotto in una dimensione nuova frutto di una consapevolezza che mi sono trovato addosso. Ricordo che quell’anno scolastico per me non era iniziato sotto i migliori auspici, soprattutto per una situazione venutasi a creare in una classe terza. In pratica era successo che all’improvviso sono rimasto in classe con otto alunni, a fronte dei venti che avevo l’anno precedente. Pur di uscire un’ora prima, la maggioranza dei ragazzi aveva convinto le famiglie a firmare il modulo per cancellarsi dalla religione, permesso che è stato poi accordato dalla dirigente.
Nessuno mi aveva avvertito di questa situazione che avevo appreso quando ormai era tutto già fatto. Non ho potuto fare altro che prenderne atto ma ero molto arrabbiato con i miei ex studenti, con i loro genitori e con la preside. In più sentivo messo in discussione il mio metodo educativo: se tanti di loro erano andati via forse era anche colpa mia, mi ripetevo ogni settimana entrando in classe.
Dal giorno in cui li ho visti uscire definitivamente dalla classe mi sono detto che con soltanto otto alunni non avrei potuto fare nulla, che non ne valeva la pena, che dovevo soltanto far passare quell’anno, considerando la circostanza un incidente di percorso.
Senza accorgermene, avevo attivato un preconcetto sulla classe e sui ragazzi. Non li guardavo più per quelli che erano perché la situazione non rientrava nel mio schema, nel mio modo di essere. Tutto è cambiato dopo alcuni mesi quando in sala professori la collega di Lettere della classe mi ha messo sotto il naso un foglio protocollo. Era il compito di italiano di uno degli otto. Mi ha chiesto di leggere, senza andare a vedere subito l’autore. Ve lo leggo perché spiega tutto meglio di tante mie parole.
“Le due persone che stimo di più, non sono le solite persone come la mamma o il papà con cui passo la maggior parte del tempo ma altre. La prima è un uomo alto, sulla quarantina di anni, occhi marroni e i capelli corti come l’erba del prato dopo che ci si passa il tosa erba.
Porta gli occhiali, veste sempre formale, gentile, simpatico, insegna religione e passare quell’oretta settimanale con cui mi fa stare meglio. Appena entra, sembra come se rilasciasse un’aura che toglie via tutto lo stress delle ore precedenti. Mi stringe la mano e certe volte ci si dà un abbraccio, durante i primi quindici minuti si parla tra di noi della nostra vita, si fanno gossip come quello tra Luca ed Elisa e lui ci parla delle sue avventure come quella dell’assicurazione scaduta che lo lasciò a piedi per un giorno.
È una persona d’oro, gli voglio bene”.
Non credevo ai miei occhi! Il mio alunno Enrico stava parlando di me, proprio di me! Una volta che mi sono ripreso dalla commozione, mi sono detto di essere proprio uno stupido. Come avevo fatto a non accorgermi di quanto stava avvenendo? Perché mi ero rinchiuso nel mio pregiudizio dinanzi ad una realtà che non mi piaceva?
La risposta a queste domande l’ho trovata nella Scuola di Comunità che proprio in quelle settimane mi chiedeva di vivere intensamente il reale e di stare davanti all’avvenimento, a quello che succede nel presente, a rispondere a Cristo che in questo caso mi era venuto incontro attraverso questa circostanza, attraverso un volto preciso.
Affrontare il mio lavoro con questa nuova consapevolezza mi ha fatto amare di più questi ragazzi, al di là del loro numero e della riuscita della lezione. Il finale è che li ho invitati prima all'open day del Banco Alimentare e poi alla vacanza delle medie. Sono venuti tutti ed anzi hanno invitato anche altri compagni che non facevano religione.
Questo è stato un episodio cruciale perché mi sono reso conto che vivere a questo livello è tutta un'altra cosa. Davvero la dipendenza da Dio mi libera da tutti i miei pregiudizi, dalle mie paure e dal mio torpore.
Un po' come è avvenuto con il lavoro che come insegnanti del movimento, siamo stati chiamati a fare su alcune pagine del Rischio educativo relative ad una lezione di don Giussani a Viterbo nel '77. In passato avevo già letto questo testo ma non mi ero soffermato sulle domande: “Tu, dove sei, sei proposta? La tua vita è proposta?”. Dinanzi a questi interrogativi mi sono scoperto pieno di gratitudine perché mi hanno permesso di chiarirmi cos'è l'educazione, cioè comunicazione di sé, e di apprezzare questa compagnia che continuamente mi strappa dal nulla aiutandomi a vivere la mia vocazione di insegnante che all'inizio ho fatto molto fatica ad accettare. A volte spreco il tempo a capire come fare a rendere più attuali le mie lezioni e non mi rendo conto che tutto passa, non dalle cose che dico e faccio, ma dalla novità di vita che esprimo per quello che ho incontrato.
Per me è stato esattamente come ha detto don Giussani in un altro testo richiamato all'ultima Giornata d'Inizio. Io come ho conosciuto Cristo? Certamente non perché ho studiato teologia all'università. Al massimo lì l'ho conosciuto a livello teorico. Se ripenso alla mia esperienza, io Cristo l'ho conosciuto, l'ho incontrato e l'ho riconosciuto per grazia. Lui fa l'esempio di padre Kolbe che “mentre era dentro il bunker in cui è morto, in quelle ore terribili, pregando, quanto più profondamente si è unito e ha conosciuto Cristo di quando in seminario studiava teologia!”.
Desidero che anche i miei alunni, i miei colleghi ma tutte le persone che mi sono date, come me, possano incontrare Cristo attraverso un incontro, una novità di vita, un avvenimento capace di cambiare la vita. Ecco perché non desidero nessun'altra libertà che non sia questa che ho sperimentato nel rapporto diretto con Gesù.